La favoletta che si suole raccontare sull’origine del sanscrito è che esso si fondi sull’opera di tre grammatici, ovvero Panini (pANini), Katyayana (kAtyAyana) e Patanjali (pataJjali).
Il primo avrebbe scritto dei sutra (sUtra) estremamente concisi, l’Ashtadhyayi (aSTadhyAyI) che Katyayana avrebbe integrato con dei versi (noti come vArtika), che a sua volta Patanjali avrebbe, insieme ai sutra originari, commentato nel suo Mahabhashya (mahAbhASya), letteralmente Grande Commento, concludendo e chiudendo l’opera di definizione del sanscrito.
In realtà le cose non stanno esattamente così, ed è importante ricordare che Panini (collocabile nel IV aC) scrive la sua grammatica in un periodo molto difficile, buio, per i brahmana mentre Patanjali (ca I dC) scrive il suo Mahabhashya in un periodo di grande rifioritura della classe brahmanica, testimoniata proprio dall’importanza crescente del sanscrito; quanto a Katyayana, egli è spesso critico delle regole di Panini, dimostrando che esisteva un dibattito grammaticale in atto.
Se la grammatica di Panini risponde all’esigenza di mantenere quel che restava del potere di una classe sacerdotale spazzata via, o comunque notevolmente ridimensionata nella sua importanza, dalla perdita di importanza del sacrificio vedico, l’opera di Patanjali decreta l’avvenuta rinascita dei brahmana, con la nuova e definitiva funzione di codificatori e detentori privilegiati del sapere ufficiale (tutto il sapere, sacro e profano diremmo con delle nostre categorie), che si affianca a quella di esecutori dei tanti riti che costellano la vita sociale degli individui (e che ne determina un importantissimo ruolo di controllo sociale, fondamentale per l’esito del buon governo).
Da un punto di vista linguistico, Panini descrive una lingua viva seppur aulica, parlata negli ambienti sacerdotali nell’area del Nord Ovest (è stato notato che Panini descrive una lingua molto simile a quella dello strato Brahmana dei Veda), mentre Patanjali descrive una lingua che sta ormai definitivamente prendendo le distanze dalle lingue parlate naturali (che si usa chiamare Pracriti) e che ha già assunto il suo status di lingua franca di cultura, usata anche per l’amministrazione del potere.
L’affermazione del sanscrito come lingua di potere sembra essere legato alle amministrazioni locali (Shunga) e straniere (Shaka e Kushana) che si insidiano nel Nord dell’India dopo il crollo dell’impero di Ashoka: se nel III aC Ashoka nelle sue iscrizioni non utilizza mai il sanscrito, dal I dC gran parte delle iscrizioni celebrative dei re sono in sanscrito.
E’ probabile che gli imperatori stranieri, trovando da un lato una notevole varietà linguistica (testimoniata dalle molte lingue in cui sono redatti gli editti di Ashoka) e d’altro lato una classe brahmana assetata di rivincita dopo l’ascesa dei buddhisti (coronata dall’adozione dallo stesso Ashoka del buddhismo come religione imperiale) abbiano optato per favorire brahmana e sanscrito, decretando la “trasformazione” di quest’ultimo da lingua “sacra” a lingua “profana”.
Da un lato quindi il percorso che da Panini arriva a Patanjali non è affatto lineare, d’altro lato da Patanjali in avanti il sanscrito, ormai definitivamente rimosso dal flusso delle lingue naturali, diventa lingua di potere “politico” ancor più che “religioso”, nel senso che attraverso di essa i brahmana si collocano come i detentori, in quanto codificatori e trasmettitori, di tutto il sapere, riacquisendo così il loro ruolo di primaria importanza sociale.
E’ a partire da Patanjali che il sanscrito diventa lingua astratta: se Panini lascia molte “porte aperte” nella sua descrizione, menzionando più o meno apertamente l’esistenza di diversità nella lingua corretta (in questo modo dimostrando di avere a che fare con una lingua ancora viva), è nel Grande Commento che avviene la definitiva messa a punto di una lingua grammaticalmente immutabile, “chiusa”.
Anche i testi in sanscrito a noi pervenuti, è bene ricordarlo, hanno sempre qualcosa di astratto.
Quel che fa il sanscrito sul piano della lingua, cioè una modellizzazione grammaticale, lo fanno i testi con l’argomento che trattano: dobbiamo saper distinguere le intuizioni fondamentali, i messaggi profondi che tali testi contengono dagli “schemini” che in ogni ambito appaiono numerosi, ma che servono più che altro, ai brahmana che di questi testi sono gli autori, a dominare l’argomento, in termini operativi (in dispute giuridiche o comunque di fronte a un’esigenza specifica), non a “spiegarlo” (tanto meno a noi) a livello concettuale.
Passando alla presunta unità del sanscrito, che vorrebbe farci credere ad un’unica lingua in uso da duemila anni circa, essa è da un lato smentita dall’esistenza di molti testi (alcuni dei quali risalgono a prima del “successo” di Patanjali, fra cui spicca il Mahabharata, altri legati a specifici generi letterari, per esempio i Purana) che non rispettano sempre le regole della menzionata triade di grammatici, e d’altro lato da ridimensionare alla luce della vastità della produzione letteraria in sanscrito: di fatto ogni genere letterario ha delle sue specificità che spesso creano delle vere distinzioni linguistiche (la sintassi e il vocabolario, per esempio, cambiano molto a seconda del tipo di testo con cui si ha a che fare).
Inoltre, a dimostrazione che le cose da un punto di vista linguistico sono “andate avanti”, continuamente sono state prodotte altre grammatiche che rielaborando l’ordine con cui Panini aveva trattato l’argomento hanno fornito strumenti di studio più utilizzabili alle generazioni di studiosi successive (oltre ad aver espunto definitivamente il vedico dal sanscrito: in effetti la più antica grammatica di questo genere a noi pervenuta, risalente all’XI sec., è opera di un buddhista, che nel Veda proprio non credeva di poter trovare nulla di interessante).
Quindi, se è vero che non è una lingua naturale, la sua lenta genesi a partire da una lingua naturale garantisce che il sanscrito non sia una lingua artificiale fatta a tavolino (come per esempio l’Esperanto); d’altra parte se è vero che non è una lingua viva (e infatti il sanscrito lingua ufficiale dell’India contemporanea è più che altro un arma di propaganda ideologica in mano ai fondamentalisti hindù), indubbiamente essa non è una lingua morta (come lo è il latino per esempio) poiché grazie alla sua duttilità e precisione grammaticale può adattarsi, come ha fatto nei millenni scorsi, a sempre nuove esigenze semantiche.
Resta la questione, particolarmente scottante per i principianti, di che cosa si può sperare di ottenere, a fronte di tale complessità (che ricordiamoci corrisponde ad una mole di testi in sanscrito assolutamente sconcertante, tra l’altro con una gran parte di manoscritti ancora inediti, se non del tutto inesplorati), con lo studio di quella che normalmente è chiamata la grammatica di base, e che costituisce l’oggetto principale del mio corso.
La risposta in effetti è piuttosto semplice: una conoscenza sufficientemente “pronta” (cioè il meno possibile dipendente da libri, appunti e schemini) della grammatica di base è conditio sine qua non per poter intraprendere un valido percorso di conoscenza e interpretazione del bagaglio concettuale disseminato nei tantissimi testi in sanscrito a noi pervenuti (nonché ovviamente per cogliere i pregi letterari dei testi poetici).
Senza una conoscenza della grammatica di base del sanscrito si è condannati ad una superficialità interpretativa che, unita alla distanza culturale che oggettivamente ci separa dai testi indiano-classici, non ci permettere di utilizzare in maniera costruttiva il patrimonio concettuale in essi contenuto.
Solo il sanscrito ci può affrancare dalle interpretazioni altrui (spesso molto ideologiche, visto il legame a doppia corda fra sanscrito e ideologia brahmanica) o dal rischio di proiettare concetti estranei, provenienti dalla nostra tradizione culturale, sulla realtà indiano classica e così facendo precluderci la possibilità di arrichire realmente il nostro patrimonio concettuale.
E, va detto, sin da Panini, i grammatici indiani ripetono che lo studio della grammatica, che si traduce in un controllo sulla lingua o comunque in una maggiore presa di coscienza della sua potenza, è attività altamente purificante: tradotto in termini contemporanei, posso certamente dire che studiare sanscrito è un ottimo modo per resistere all’attacco che lingua e letteratura in genere stanno subendo dai colpi inferti dalla “civiltà” del video, che vuole farci credere che le parole contano poco o niente.
da Giulio Enrico Geymonat, docente di Sanscrito e Filosofia
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